martedì 28 ottobre 2008

MAESTRO PONTE


MAESTRO PONTE

“Oltre il ponte che è in mano nemica….”diceva il ritornello di una canzone partigiana ripresa nel film “C’eravamo tanto amati” e mi è tornata in mente quando ho sentito che il Parlamento ha impegnato il Governo ad istituire le classi ponte.
E’ un ragionamento che non fa una piega per chi sta approvando una legge nella quale si prevede di aumentare gli alunni per classe e portare ad una sola le maestre .
Con 30/32 alunni per classe come volete che possa la maestra unica riuscire ad insegnare l’italiano agli stranieri? E,responsabilmente si sono risposti: l’unica è fargli l’esame e chi sa l’italiano può restare e chi non lo sa va nella classe ponte.
Una maestra ieri sera a Ravarino ad una assemblea sui temi della scuola si chiedeva:” Ma cosa c’è di là dal ponte?Si sono dimenticati di dirci dove porta quel ponte”
Sono d’accordo mi sembra fondamentale rispondere a questa domanda prima di dire se è la strada giusta.
Un’altra cosa non ci hanno detto. Chi insegnerà nella classe ponte? La maestra che sa le lingue? Potrebbe essere utile perché nella stessa classe ci saranno marocchini,albanesi,romeni,ghanesi,indiani,serbi,moldavi,cinesi,filippini…..
Verrà fatta una graduatoria? Ma sarà una graduatoria di merito? Per cui ai primi posti andrà la maestra laureata in lingue,quella più brava in italiano,quella che fa imparare a memoria l’inno nazionale. Oppure la classe ponte verrà considerata un reparto di confino(o confine?)una specie di Guantanamo in cui mandare le maestre che hanno avuto contatti con musulmani,quelle che fanno spesso viaggi all’estero e che amano le letterature dei paesi ex colonie europee?
Se verrà scelta la strada di mandare nella classe ponte le maestre che dopo i tagli resteranno senza classe ma non potranno essere licenziate perché già di ruolo,insomma gli scarti che rischierebbero di rimanere improduttivi. In questo caso presento la mia autocandidatura per diventare maestro ponte,per insegnare in quelle classi. Infatti non voglio lasciare solo Patric che è appena stato adottato e parla portoghese,Hilal che è un anticipatario,cioè è venuto in prima elementare a cinque anni senza aver frequentato la scuola dell’infanzia,Lin che si illumina tutto solo quando giochiamo con il vocabolario illustrato italo-cinese,Lydia che ha frequentato la scuola dell’infanzia ma che difficilmente supererebbe un esame scritto di italiano.
Il mio sogno sarebbe quello di diventare un maestro passeur,come dicono i francesi,il traghettatore,colui che aiuta a passare di nascosto il confine o le linee nemiche(come traduce il vocabolario per chi non sa il francese).Non mi vergognerei ad essere inserito in una classe di clandestini,di bambini contrabbandieri delle culture e dei giochi. Assicuro che io e loro ci impegneremo al massimo per poter tornare di là insieme agli altri,però dovete dirci con precisione cosa volte che impariamo e non alzarci l’asticella ogni volta che vogliamo saltare dall’altra parte.
Speriamo solo che ci lascino giocare in cortile insieme agli altri durante la ricreazione
Perché ho sentito qualcuno dire: la ricreazione è finita.
Arturo Ghinelli

1 commento:

Anonimo ha detto...

Trascrivo anch'io la mia lettera al Ministro Gelmini.
"Gentile Ministro,
sono una maestra che, con tutto l'amore e la passione di cui è capace, ha dedicato buona parte della propria esistenza ai bambini della scuola elementare e, pur capendo la Sua situazione e le pressioni che riceve sulla necessità dei tagli alla scuola pubblica, sento il dovere di dirLe alcune cose circa le conseguenze che, a mio modesto parere, avrà il provvedimento in corso di approvazione sulla produttività, sia sotto l'aspetto quantitativo, che sotto quello qualitativo, della nostra scuola primaria. Spero gradisca il parere di lavoratori ed esperti del settore.

Maestro unico e 24 ore settimanali

Forse una delle maggiori forze propulsive della didattica degli ultimi trent’anni è venuta proprio dal fatto che l’insegnante della primaria non è più solo nella sua classe: può confrontarsi, scambiare informazioni, discutere, aggiustare percorsi, condividere problemi e decisioni (e sono decisioni delicate, perché prese sui nostri ragazzi) con i colleghi del team, progettando insieme, mettendo a disposizione risorse e competenze (che possono essere diversificate), definendo curricoli personali, valutando con diversi punti di vista, aprendo nuove strade, controllandosi a vicenda ed insomma collaborando, come si deve imparare a fare in ogni professione.
Tali prassi, non a caso, vengono riconosciute dall’OCSE come vincenti al fine di qualificare il processo di apprendimento/insegnamento.
Molti insegnanti, che tanta professionalità hanno ricevuto da questa pratica, non erano nemmeno d’accordo con il maestro prevalente proposto qualche tempo fa: è essenziale sentirsi corresponsabili a tutto campo dell’educazione dei nostri alunni (sarebbe come dire che la mamma deve essere prevalente rispetto al papà!). Non è nemmeno buona abitudine distinguere le competenze disciplinari in modo rigido (si è sentito parlare di maestre a righe e maestre a quadretti), perché c’è il forte rischio di perdere di vista sia la globalità delle persone che apprendono che l’unitarietà dell’insegnamento e del sapere, che non è cosa da prendere per buona, ma va costruita.
Questa condivisione è un esercizio importante che oltre tutto costituisce un “sistema” di lavoro e di controllo nelle scuole, utile agli insegnanti che si devono inserire ed capace di dare identità ad una scuola.
Anche nel complesso sistema delle relazioni, che nelle nostre classi assume un peso assai rilevante, la presenza di più figure di riferimento non può che essere una risorsa in più (trovarsi un solo insegnante sgradito sarebbe alquanto grave e irreparabile!).
Lei dirà che molti Italiani sembrano aver gradito questa Sua proposta. Ne comprendo le ragioni: parlano con la superficialità di chi non conosce la realtà scolastica e il lavoro che vi viene fatto. Ricordano la loro esperienza di scolari come la migliore possibile e senza contestualizzarla in un momento storico assai diverso dall’attuale, in cui famiglie e ragazzi hanno ben altre esigenze anche di tipo educativo. Non è che vorrebbero delegare alla scuola l’esercizio di quell’autorevolezza e “severità”, intesa come coerenza educativa, che a loro riesce così difficile con i ragazzi? Non è che si aspettino che con la vecchia maestra, fornita di bacchetta magica (o meno magica), i loro bimbi imparino il rispetto all’adulto, l’ascolto, l’obbedienza che non riescono ad ottenere dai loro figli? Sarà difficile, però, trovarne tante, di queste fantasmagoriche maestre uniche, designate dagli italiani per riportarli ai tempi del boom economico, quando c’erano ancora buoni principi e senso del dovere!
Ci si ricorda di come funzionava allora?
Nel passato la scuola si configurava come un prolungamento del sistema valoriale, educativo e delle regole che c’erano nella famiglia e nell’intera società. Ora non più: c’è spesso discontinuità tra questi due mondi. Gestire questa situazione, lavorare sull’educazione, necessita di più di un punto di vista.
L’insegnante, allora, doveva insegnare a “scrivere, leggere e far di conto” [Un po’ meno far di conto, perché le maestre, che di solito sono femmine italiane, sono anche meno portate (e per qualcuno è pure un vanto!), come dimostrano puntualmente i dati OCSE per le ragazze più grandi delle nostre scolare.]
E’ sufficiente oggi? Lei se la immagina una maestra gestire un laboratorio d’informatica con 27 ragazzi? Scordiamoci le uscite, le scienze sperimentali (sono docente – tutor del Piano ISS, che ne sarà della laboratorietà?), l’apprendimento della musica, gli atelier di pittura, gli “ambienti d’apprendimento”…
I docenti di un tempo insegnavano in modo nettamente trasmissivo e ci veniva detto che “s’apprende nel silenzio”. Come Lei sa le Indicazioni Nazionali sono molto lontane da questa pedagogia, anche perché i bambini di oggi non ragionano nello stesso modo, ma mettono in atto processi diversi ed hanno stili d’apprendimento differenti, per i quali la pedagogia trasmissiva non funziona (sempre che funzionasse bene anche ai nostri tempi: non lo sapremo mai!).

Io per trent’anni ho lavorato in altra direzione. Sono entrata di ruolo vincendo il concorso dell’83, dopo cinque anni di forzato precariato (non erano stati indetti concorsi) con una prova scritta sulla valenza di più figure docenti nella scuola elementare. Allora ho sbagliato tutto! Non vado più bene per il popolo italiano! Perché, di quello che ho scritto allora, ne ero convinta! Forse mi dovreste licenziare… Anche perché il mio Provveditore (lo so che non si chiama più così) vuole sapere quali sono i docenti che protestano contro il Suo Decreto…
Io protesto, lo faccio direttamente con Lei. Non lo faccio per schieramento politico, se mi crede, e dovrebbe, perché sono tra quelli che non si sono fatti scoraggiare in questi anni, così disorientanti per le diverse, e a volte contraddittorie, disposizioni ministeriali, lo faccio perché ci credo, l’ho vissuto e sperimentato, insieme ai miei ragazzi e alle loro famiglie. Non pensi che questa cosa sia da libro Cuore. Forse è del tutto vero che quello che fanno gli insegnanti più che un mestiere è una missione, ma solo loro hanno il diritto di assumerla e di difenderla. Nessun Ministro, mi perdoni, può demandarcela.

Ma torniamo alla nostra maestra (femmina, di solito, che è anche più materna, e soprattutto, così, alla mezza, può correre a casa a fare il ragù – tanto ha già finito – si fa per dire – visto che avrà solo le ore del mattino: poco pagato, ma splendido lavoro part-time!). Quel silenzio da mantenere sarà davvero uno dei problemi principali che dovrà affrontare, perché avrà anche parecchia fretta!
Ha da far tutto in 24 ore settimanali… Tempi distesi e personalizzati per l’apprendimento? Ma vogliamo scherzare? Può dare parecchi compiti, però!

Tempo scuola.
Dai dati sulle ore di scuola erogate ai ragazzi dallo Stato, pare che gli studenti italiani stiano a scuola di più rispetto ai loro coetanei stranieri.
Chiunque conosca un po’ la realtà di altri paesi sa che non è vero. Il tempo pieno e la settimana corta (5 giorni) è una consuetudine consolidata in moltissimi paesi. Ma questi servizi scolastici non sono completamente a carico del Ministero dell’istruzione, spesso sono integrati dagli enti locali, da Ministeri diversi, dalle famiglie, da enti diversi. Questa non è una tradizione italiana (seppure in certe regioni i contributi degli enti locali pare migliorino la qualità del servizio, facendo anche risparmiare allo Stato) che dal 1859 in poi ha perseguito una scuola pubblica, gratuita, decentrata, con programmi centralizzati e libertà d’insegnamento (è da vedere se questa non sia una cosa buona). Non conosco associazioni e risorse umane nel nostro paese capaci di sostituire la professionalità docente, anzi spesso si vedono agenzie educative che di educativo, accogliente e democratico hanno poco o nulla.
Meno tempo scuola potrebbe portare ad una maggiore qualità dell’istruzione? Mi sembra piuttosto azzardato.
Piuttosto, la decurtazione del tempo scuola ha implicazioni molto gravi.
Dal punto di vista dell’equità e delle problematiche sociali certamente metterebbe in grave difficoltà le madri lavoratrici (che già sono meno in Italia rispetto agli altri paesi europei: vogliamo che le donne ricomincino a fare le casalinghe? Non me lo aspettavo da una “Ministra”!).
In seconda istanza potrebbe causare una diversa distribuzione dell’utenza nelle scuole (i figli di gente abbiente, che può permettersi di assistere il figlio al pomeriggio o doposcuola a pagamento starebbero in scuole diverse da quelle frequentate da alunni più sfortunati ghettizzati nelle poche scuole a tempo lungo), mentre una delle grandi valenze della scuola pubblica è proprio quella di inserire i bambini in una comunità variegata, complessa e stimolante, aperta ad un confronto paritario.
Gli aumentati compiti assegnati a casa provocherebbero parecchi disagi e conflitti scuola – famiglia (spesso gli alunni più deboli sono poco autonomi e la famiglia faticherebbe a seguirli).
Sorgerebbero, è vero, molte iniziative private (anche molte scuole private, di varia natura e di vario livello) che contribuirebbero a compensare l’offerta della scuola pubblica. Ce ne sono già tante: oggi compensano anche il vuoto della famiglia. Dicono le Indicazioni:
“Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. Oggi l’apprendimento scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei contesti scolastici. Ma proprio per questo la scuola non può abdicare al compito di promuovere la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico
che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti”
Lei veramente pensa che allenatori di calcio col mito dei campioni, animatori improvvisati, astrusi esperti e signorine – badanti potrebbero fare quanto fa la scuola, o anche di più? Per chi, tra l’altro? Per chi ne ha più bisogno? Ricorda l’articolo 3 della Costituzione? Forse un’utopia, ma un buon principio ispiratore.
C’è un’altra ragione per cui la scelta del maggior tempo scuola è preferibile a quello di maggior tempo “libero” o, meglio, tempo disoccupato. Non vorrei giungere a citare Don Milani, ma la funzione di accoglienza e di cura della scuola ha una sua rilevanza determinante sulla sicurezza sociale. Nei filmetti stranieri alla tivù si vedono spesso bambini maltrattati dai compagni o soggetti ad episodi di bullismo e sappiamo che il problema sta crescendo anche Italia, soprattutto fuori dalla scuola, per quanto se ne dica, e dal momento in cui i ragazzi cominciano a frequentare le scuole medie e ad essere più soli.
Nella scuola primaria un tempo scuola corto comporterebbe l’abbandono e l’isolamento di molti bambini, che non più coinvolti con i compagni nel lavoro e nei giochi in un ambiente protetto, potrebbero restare in balia di tivù o videogiochi e senza la compagnia di coetanei (oggi i bambini non giocano per strada o nei parchi autonomamente senza correre dei pericoli!).
Siamo sicuri di voler correre questi rischi? Quanto costerebbe al paese una destabilizzazione di questo tipo? Sarebbe poi sufficiente ricorrere, come fanno in altri paesi, a figure ed esperti di vario tipo – assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, tutors… - che senza vivere tutti i giorni la scuola con i bambini, come fanno gli insegnanti, si dovrebbero interessare a loro e risolverne i problemi (e che comunque, da qualcuno, andrebbero pagati)?

Dal punto di vista didattico il problema è, se possibile, ancora più grave.
Il tempo scuola è una questione cruciale.
I tempi scolastici distesi non consentono solo quell’elaborazione e l’accesso a quella complessità del reale e del sapere che a tutti i pedagogisti di oggi (Bruner, Gardner, Morin, Meirieu, Perrenoud…, ma anche Dewey, Piaget, Vygotskij) pare necessaria ed auspicabile. Rappresentano anche, per la stragrande maggioranza dei nostri alunni, l’unica via, in controtendenza rispetto alla società, di acquisire le cose con calma, con sistematicità, con l’esercizio della meta cognizione e della revisione.
Nella scuola oggi ci siamo abituati a lavorare per problemi, a far discutere gli alunni tra loro (apprendimento tra pari), a promuovere la loro autonomia nei lavori cooperativi, a tener conto di attitudini, di stili di apprendimento, di motivazioni personalizzate, ad abituare all’ascolto e a praticarlo, ad incentivare la narrazione, a coinvolgere le emozioni, a sollecitare pensiero critico e coerenza di ragionamento, a valutare i processi, ad interpretare racconti di complessi percorsi cognitivi…
Ancora: la scuola spesso offre alla maggior parte dei bambini un’esperienza diretta sul reale che invece manca così tanto ai ragazzi di oggi, poco in contatto con la natura, assistiti da adulti sempre di fretta, resi poco autonomi, poco concreti, poco curiosi e poco responsabili. A volte offre loro anche la possibilità di essere protagonisti nel ripensamento di quella stessa realtà e nei progetti d’intervento.
Pensa che davvero tutto questo non richieda tempi lunghi?
Se consideriamo poi l’oggetto dell’apprendimento la contraddizione diventa ancora più lampante.
Il maestro unico di un tempo insegnava giusto italiano e un po’ di matematica (l’Italia di allora aveva una forte impronta umanistica, come ho già ricordato), qualche nozione di storia e geografia, curiosità scientifiche, se andava bene (i delfini non sono pesci, le piante danno ossigeno di giorno e “anidride carbonica” – parola incomprensibile – di notte perché fanno la sintesi clorofilliana, la terra gira intorno al sole – fidati…: non certamente la scienza perseguita dal piano ISS, che pure è ministeriale) ed era finita lì. Ora deve fare anche inglese, tecnologia, informatica, educazione civica, musica, immagine, motoria (e chi ai miei tempi è mai andato in palestra?). Religione no, quella di solito la fa un docente specializzato. Forse per certe “materie” c’erano i voti, non certamente curricoli definiti, così complessi e densi di implicazioni, concetti, significati!
Non sono necessari? Chi appoggia la Sua scelta deve pensarla così, l’alfabetizzazione culturale, i saperi essenziali e di base debbono essere stati un abbaglio…
Non basta. Lei sa certamente quanti e quali altri carichi sono stati attribuiti alla scuola negli ultimi trent’anni. Probabilmente troppi, non sempre coerenti, a volte un po’ di moda. Ma è indubbio che si siano imposti come necessità sociale e culturale temi di base che non rientrano in discipline, quali la famiglia, l’ambiente, l’intercultura, la sessualità, la salute, la sicurezza … Tutto da rifiutare?
Inoltre il ruolo educativo della scuola è diventato pregnante. Dalle Indicazioni:
“Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo.(…) La scuola affianca al compito “dell’insegnare ad apprendere” quello “dell’insegnare a essere”.”
Ai tempi del maestro unico era quasi preferibile distinguere nettamente il ruolo della scuola (soprattutto istruttivo) e quello della famiglia (prettamente educativo) ed evitare le interferenze, ora questo non è più possibile. Ci si chiede un’alleanza educativa con famiglia e società che può essere perseguita solo attraverso una costante attenzione alla socialità, al dialogo, al microcontesto della classe come comunità di cittadinanza e democrazia. E questo non implica tempi adeguati?
Ci si chiedono anche adeguati interventi nei confronti degli alunni in difficoltà d’apprendimento, alunni stranieri, disagio scolastico, eccellenze, alunni certificati. Una volta, anche da noi, come ancora ci sono in molti dei paesi che vorremmo emulare, c’erano le classi speciali e quelle differenziali: era una buona cosa? Io direi di no, si può fare molto di più per tutti in una classe dove l’accoglienza, l’ascolto, l’individualizzazione (o personalizzazione che dir si voglia) sia pratica didattica e variegata. Dove differenziare attività in classe e compiti per gruppi di alunni sia normale e pianificato. Ma ci vuole del tempo…

Il valore del tempo pieno
Pur nato tanti anni fa da un’esigenza dichiaratamente di matrice sociale – assistenza alle famiglie di lavoratori – oggi il sistema del tempo pieno rappresenta una delle realtà più virtuose della scuola primaria italiana (e penso che Lei lo sappia, perché ha a disposizione dati e statistiche, compresi quelli IEA-PIRLS, che premiano la scuola primaria italiana, quella che più di tutte Lei vuole devastare).
Le ragioni di questo successo vanno ricercate proprio nell’organizzazione che si vorrebbe distruggere. Spesso queste scuole non si trovano in realtà economiche e sociali particolarmente favorevoli, ma hanno intessuto durevoli rapporti con il territorio ed il bacino d’utenza.
Hanno ampliato l’offerta formativa senza però cedere a mode o a tendenze passeggere. Hanno consolidato esperienze di attività laboratoriale e di apertura tra le classi. I due insegnanti del team programmano a stretto contatto senza una distinzione così rigida tra le aree disciplinari, si confrontano con gli altri e discutono, corresponsabili dei percorsi didattici ed educativi dei loro alunni.
Il tempo pieno organizzato come oggi consente la compresenza e la presenza di un insegnante durante la mensa e il gioco. Forse si pensa che questo tempo sia superfluo e ci si possa risparmiare su. È invece tempo preziosissimo e caratterizza in modo determinante e qualificante il sistema del tempo pieno.
Durante la compresenza, e sono dalle 4 alle 6 ore settimanali per classe (se non se ne impiegano altre 2 per religione/attività alternative, caso unico internazionale) a seconda della necessità o meno di un insegnante d’inglese specialista (in questo sono d’accordo con Lei, è bene aumentare al massimo gli specializzati, senza fare danni, però!), si conducono pratiche didattiche e attività tra le più importanti e qualificanti della scuola.
Parliamo di attività laboratoriale, a classi aperte, di incontri con gruppi di livello, recupero e sviluppo, di discussione a grande o piccolo gruppo, di visite didattiche, di osservazioni mirate, di interventi individuali, di cooperative learning, di progetti differenziati, di percorsi sulle abilità di studio, di messa a punto dei “patti educativi”...
Il maestro unico nella sua classe del mattino, con i bambini tutti seduti ai loro banchi, preoccupato anche per quelli che manda in bagno (e se si fanno male?), difficilmente potrà fare tutto questo.
Se ci proverà, faticherà anche a coglierne i risultati, le implicazioni, i possibili adeguamenti.
Molti tra noi preferirebbero lavorare in due con 40 bambini piuttosto che da soli con 20 (60 però sono davvero troppi, li ha mai visti tutti insieme?).
Le faccio anche notare che l’autonomia di cui godono gli studenti stranieri è molto diversa da quella concessa in Italia (ho visto con i miei occhi gruppi di bimbi delle elementari inglesi lavorare soli – con qualche aiutante/bidello, non pagato dal Ministero, che interveniva ogni tanto – oppure venire spediti nel parco della scuola a misurare il laghetto). È vero che una gestione della classe più snella ed agevole aiuterebbe molto gli insegnanti italiani, ma il valore dei momenti di compresenza è proprio quello di non essere soli e unilaterali.
L’”assistenza” durante la mensa e il gioco è un altro momento messo in discussione. Basterebbero degli assistenti.
Il momento della mensa, con tutti i nuovi problemi alimentari degli Italiani, con i loro tempi sfasati (per cui difficilmente a pranzo la famiglia si trova insieme, a parlare, come si faceva, attorno al tavolo, con i bambini attenti anche ai discorsi dei grandi, se non altro per deferenza) consiste anch’esso in un momento educativo, un momento comunitario, un momento conviviale. Per non parlare del gioco e del sistema di relazioni e di valori che ad esso è connesso… un gioco con coetanei ed amici che spesso è possibile solo a scuola (perché a scuola facilmente si diventa amici, se ci sono le condizioni favorevoli).
Secondo me è assai rischioso e svilente affidare la gestione di tutto questo a badanti che non seguono tutto il resto di questi ragazzi.
Qualcuno dirà che durante la ricreazione, i maestri intanto chiacchierano, fumano, prendono il caffè. Forse fanno anche tutto questo, intessendo anche rapporti umani ed amicali con i colleghi, scambiandosi opinioni (i maestri parlano sempre di scuola!), preparando materiale per le lezioni, osservando gli alunni nei loro giochi liberi, organizzando momenti di gioco organizzato, gestendo le situazioni di conflitto, intervenendo in momenti delicati, vigilando sulla sicurezza dei ragazzi, coltivando rapporti individuali… un momento di tutto relax!
E sia, non succede mai negli altri mestieri? Posso concedere che sia lavoro meno impegnativo di quello svolto in aula, ma non è lo stesso di un baby sitter che ha da guardare uno o due bambini… Non è poi pagato tanto di più, in fondo. E i nostri scolari non ne farebbero a meno: sono momenti che giudicano importantissimi per il rapporti interpersonali anche con l’insegnante, con cui interloquiscono incessantemente, perché contano su di loro.
È vero che oggi il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo, quella che costa di più, perché implica più risorse umane, ma vogliamo privarne proprio i nostri ragazzi, che rappresentano il nostro futuro?

Razionalizzare, ma puntare sulla scuola
Indubbiamente è necessario razionalizzare un servizio e far fruttare al meglio la spesa pubblica. Alcuni dati statistici, OCSE o non, ci dicono che ci sono delle cose da migliorare e forse qualche spreco si potrebbe evitare (quelli che vediamo, le assicuro che fanno rabbia anche a noi, perché ci danneggiano pure nei confronti dell’opinione pubblica).
Di sacrifici, noi maestri ne abbiamo già fatti in questi anni, tagli ce ne sono già stati, fin dai tempi della razionalizzazione del ministro Berlinguer. Io e tanti miei colleghi non ci siamo lamentati, per quanto lavoro ed impegni crescessero a dismisura in questi anni, per quanto ogni tanto arrivassero nuove disposizioni a complicarci il cammino. Abbiamo perfino esagerato. Nel mio Circolo, ad esempio, abbiamo mantenuto il Portfolio, che pure non è più istituzionale, perché ci sembrava una cosa buona, capace di dar conto della valutazione formativa, proattiva, interpretativa…
I dati ci dicono: troppi insegnanti. O meglio, la spesa per la scuola in Italia se ne va quasi tutta per lo stipendio degli insegnanti.
Ma ci dicono anche che l’Italia spende meno degli altri per l’Istruzione! Altri Paesi, nei momenti difficili, hanno fatto scelte opposte a quella che Lei si accinge a fare, hanno investito puntando proprio sulla scuola per innalzare le potenzialità delle risorse umane del futuro. E non mi pare che sia andata male…
Ci viene detto che il rapporto insegnanti / alunni è più alto di quello che c’è generalmente all’estero (dove però sappiamo operare anche altre figure) e la spesa del Ministero per l’istruzione procapite degli studenti piuttosto ragguardevole, tanto più in riferimento ai risultati qualitativi ottenuti nelle indagini internazionali dai ragazzi italiani. A parte il fatto che per la scuola primaria, che le Sue disposizioni hanno preso di mira in particolare, non è così (nelle indagini IEA per il 4° grado d’istruzione l’Italia è davanti per lo meno a tutti i Paesi del G8, per non parlare delle distinzioni da fare su base regionale, anche per quanto riguarda l’OCSE-PISA), chi ci dice che non potessero essere ancora peggiori, senza tutti gli insegnanti che si sono dati da fare? I ragazzi, oltre che i tempi, sono cambiati, e ci sono Paesi che debbono reclutare docenti all’estero, nei paesi più poveri, perché non trovano più nessuno disposto a fare questo comodissimo mestiere!
Ma si può sempre migliorare.
La dispersione dei plessi troppo piccoli nei territori montani o particolari è certamente una questione che va analizzata (chi va a scuola a piedi oramai?). In certe situazioni il trasporto scolastico è una necessità assai ragionevole! Anche le scuole troppo grandi, però, hanno problemi, bisogna fare attenzione.
La storia dei maestri di religione assunti in modo assai discutibile eppure intoccabili è interessante: sarebbe molto grave cambiare il concordato? Non sarebbe meglio insegnare una storia delle religioni che avrebbe il pregio di unire anziché il rischio di dividere? La religione confessionale viene già insegnata nelle Chiese attraverso il catechismo, la cultura religiosa non può essere gestita soltanto dalla Curia: è un fatto di tutti. Facciamo a meno degli insegnanti di religione, come di altre lobbies a volte di insondabile origine.
Gli assenteisti non dovrebbero aver posto nella scuola. Il ministro Brunetta persegue una giusta intenzione (forse però si dovrebbe esercitare anche un po’ di buon senso e dare credito ai meritevoli!). Chi vuol lasciare la scuola per motivi vari, tra cui anche una sopraggiunta demotivazione – succede! – , può essere incoraggiato ed agevolato alla riconversione; i professionisti, o chi ne ha l’esigenza, nello stesso modo favoriti per un part time di diverse forme.
Forse nel calendario scolastico ci sono pause un po’ troppo lunghe e quel mese in cui d’estate restiamo a disposizione potrebbe essere in parte impiegato per corsi integrativi e per certi impegni che spesso si accumulano in alcuni periodi delicati (ma si faccia sapere all'Italia che non bastano nemmeno 2 ore settimanali per programmare con i colleghi e in più c'è la funzione docenti, che è ragguardevole!).
Molti di noi erano d’accordo anche con un sistema di valutazione, che chiaramente deve essere complesso, variegato ed accorto, sull’operato di noi insegnanti. È vero, non siamo tutti uguali! Ciò è una ricchezza, ma comporta anche dei rischi e, come sempre, delle degenerazioni.

Ogni realtà può e deve essere studiata, sentita e razionalizzata. Ci vuole pazienza e coraggio. Chi fa il ministro italiano dell'istruzione deve pur possedere coraggio e dedizione. Combatta! Penso che questo noi insegnanti Glielo possiamo chiedere, e combatteremo anche noi, o almeno quanti di noi lo hanno sempre fatto.
Il futuro dei giovani è la risorsa più preziosa di una nazione e “la civiltà di un Paese si misura sulla qualità delle sue scuole”. È sicuramente un’epoca di scelte e anche l’Italia è chiamata a farne, magari in controtendenza rispetto al vento che spira oggi, troppo spesso senza meta e senza valori, che genera facilmente abitudini grette e conformiste, in cui è difficile riconoscere senso e qualità della vita.
Usciti dalla guerra, gli Italiani si vendevano la terra pur di far studiare i figli. Noi cosa ci stiamo vendendo? La tradizione (laddove davvero sia recuperabile) ci àncora ai significati, ed anche i bambini sono radici, un altro tipo di radici gettate nel futuro...
La scuola spesso è l'unica alternativa a quel pensiero unico che non sa pensare l'altrimenti e propaganda che l'appiattimento sul consumo, sul facile successo senza sforzo (e magari amorale), sull'inutilità del sogno, del pensiero, dell’impegno produca il solo mondo possibile... A volte sono solo gli insegnanti quelli che offrono antidoto alla mentalità da reality show, dove gli Altri vanno eliminati giacché “Ne resterà soltanto uno”; mentre davvero vince la scuola laddove “Tutti” saranno condotti alla meta ( "Non verremo alla meta a uno a uno, ma a due a due..." Eluard).

Forse mi sono dilungata troppo e Le chiedo scusa per il tempo sottratto al Suo ponderoso impegno, ma mi creda, noi operatori della scuola non siamo insensibili ai problemi di risparmio della spesa pubblica e siamo pronti a sacrifici pur di salvare valori che non hanno prezzo per il futuro dei nostri ragazzi.
Le chiedo davvero di ripensarci e di chiedere consiglio ed appoggio a chi lavora nella scuola, a chi ama questo mestiere e vorrebbe sempre vederlo migliore."

Cristina Tioli
Scuola “M. L. King” Portile, Modena